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Ieri sarà quel che domani è stato

Le dieci vergini. Imparare a vivere l’attesa.

Charles Ricketts The Wise and Foolish Virgins
Charles Ricketts, The Wise and Foolish Virgins

Da quando il coronavirus si è insinuato nella nostra realtà ed ha cominciato subdolo a serpeggiare in essa, ognuno di noi sta sperimentando un modo di essere nel mondo diverso da quello precedente, che pure fino a poco prima riteneva immodificabile. L’angoscia da categoria filosofica è diventata una modalità esistenziale con la quale convivere esercitandoci nella capacità di contenerla, gestirla, sublimarla, cioè trasformarla in altro, qualcosa che non ci faccia sterilmente ripiegare su noi stessi e chiuderci solipsisticamente prefigurando, nell’isolamento, il male che temiamo, ma al contrario, qualcosa che disponga ad altro la nostra anima aprendola, nella solitudine, alla comunione, nel silenzio, all’ascolto, ora che la quiete di un fluire più lento del tempo sembra consentircelo.

In questa dimensione di maggiore raccoglimento, “rivedere”, “rivedersi”, tentare un nuovo sguardo, credo sia un’opportunità e un dovere: un modo di esserci, di partecipare a un dolore che mentre altrove dilaga, qui pur avendoci solo sfiorato, comunque tutti ci coinvolge nella stessa trama, perché il dopo per nessuno sarà come prima.

È questa la pandemia: nessuno escluso, e se non si muore fisicamente, almeno qualcosa di noi deve morire. Si tratta di capire che cosa e in questo, forse, l’essenzialità che ci viene imposta può aiutarci, così da lasciar scivolare senza rimpianto ciò che non merita e magari custodire, come ricordo, ciò che ha avuto un valore ma a cui è meglio rinunciare per viaggiare leggeri.

Più volte, in questi giorni, non a caso, mi è tornata in mente, con insistenza, la definizione che Platone dava della filosofia dicendo che essa è <<preparazione alla morte>>; mi è tornata però in modo diverso, non come se la leggessi nel Fedone, ma come se me la suggerisse dall’interno una voce che tenta di convertire in idea l’emozione di un vissuto grave ed intenso.

Insieme a Platone, come ci fosse una parentela, da un repertorio antico è affiorata, e si è fatta spazio con forza, nella memoria, la parabola delle vergini stolte e quelle sagge di cui narra il Vangelo di Matteo come esempio di un tempo tradito, un’attesa mortificata nella negligenza: le stolte, infatti, andando incontro di notte allo sposo che tardava a rientrare, rimasero al buio, perché, a differenza delle altre che erano state previdenti, non avevano portato con sé l’olio necessario per mantenere la luce delle loro lampade.
Qui il legame della parabola con il pensiero di Platone si rivela nella saggezza delle vergini, che la filosofia sembrano incarnare con il loro atteggiamento vigile, capace di vivere l’attesa senza farsi sorprendere impreparate da quanto può accadere. Il messaggio comune è quello del senso del tempo che ci è dato, del possibile e del necessario, del previsto e dell’imponderabile, delle attese vuote o piene: “appuntamenti” noti o ignoti a cui non si può mancare, specialmente quello estremo, l’ultimo, laddove la vita cede alla morte varcando il limite che l’ha segnata e con questo l’ha resa preziosa.

La relazione di queste considerazioni con l’attualità è palese. Catapultati in uno scenario nel quale vita e morte s’intrecciano, il loro misterioso abbraccio tutti ci inquieta e noi che ai margini, come sospesi in un osservatorio metafisico, stiamo solo a guardare, noi per onorare questa tragedia che sembra risparmiarci, dobbiamo almeno assumere fino in fondo il ruolo “privilegiato” di spettatori e quindi non permettere che si chiuda senza “catarsi”, anche se questo significa entrare nel dolore degli altri e farsene carico; ma non c’è felicità al singolare: è la pietas che ci salva, è lei che purifica, che ci rende migliori.
Lo dobbiamo a quanti dalla tragedia in atto sono stati inghiottiti, alla solitudine radicale delle loro morti, alla fatica di chi si è prodigato per loro oltre ogni limite, alla pena di chi non lo ha potuto fare, lo dobbiamo alla vita. Il dopo, dicevamo, non sarà come prima, e sarà a lungo fragile; avrà bisogno di attenzione, di cura. È vero che pur essendo impastati di tempo, non ne siamo padroni: i fatti lo dimostrano; non sappiamo quale sia la sua forma e la sua direzione. Ma nonostante l’enigma del suo procedere, proviamo a dargli un’anima, a coglierne il respiro, a leggerne i segni, a rispettarlo.
Dice G. Grass: <<Ieri sarà quel che domani è stato>>. Non c’è fatalità in questo: c’è una responsabilità fatta di azioni ed omissioni. Prendiamo esempio dalle vergini sagge del Vangelo. Con il tempo non si scherza; da tutto sembra farsi lavorare, ma nel bene e nel male tutto restituisce.

Maria Liberti


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