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Ricominciare

L’anima dei luoghi. Memoria individuale e storia collettiva.

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Foto di S. Nappa, 2012

Quando finirà la quarantena, so già dove andrò, quale sarà la meta della mia prima uscita: andrò  in centro a rivedere i luoghi che mi sono più cari, quelli per i quali sento di amare questa città che nera di lava e luminosa di sole, me li custodisce perché quelli che sono per me i luoghi dell’infanzia sono pezzi della sua storia. E questo, buon per me, li ha salvati dall’essere offesi e violati.
Sono luoghi in cui il tempo sembra essersi fermato, in cui i rumori esterni arrivano rarefatti e quelli interni riposano, come in sospensione. La loro presenza, la loro resistenza, credo, conforti della discontinuità delle cose che, fragili o infedeli, vengono meno, della mancanza delle persone che non ci sono più; dà un senso di appartenenza che fa sentire meno soli quando si è fatto vuoto intorno ed i ricordi  non si possono condividere se non con i luoghi che li hanno ospitati.
È questo il potere dei luoghi della memoria, il loro richiamo: sono luoghi identitari per la storia collettiva e per quella individuale; aiutano a riconoscersi, a dire chi siamo.

Da tempo, i miei, non li visito. Ritrovarli, dopo che lo stare a casa ha dato uno sguardo diverso sulle cose, non sarà una ripetizione, ma una ripresa. Quando finalmente andrò, lo farò a piedi: senza fretta, passo dopo passo, misurando il cammino e accorciando lentamente la distanza che mi separa da essi, per avvertire anche il piacere che c’è nell’andare loro incontro.
È nel camminare una metafora di quello che la vita svela quando la percorriamo senza scorciatoie, imboccandone anche le impreviste deviazioni che non si sa dove portano sebbene è certo che da qualche parte conducano. Per questo dice Machado “Camminando s’apre il cammino”. Un cammino, il mio, in questo caso, a ritroso nel tempo, ma non per tornare indietro, al contrario per procedere sapendo che la direzione giusta si chiarisce, a volte, ritornando al principio, laddove la via si era lasciata. E di questo forse ora che dobbiamo ricominciare, abbiamo più bisogno perché non tutto tornerà ed avremo bisogno di orientarci. Per uno strano gioco di coincidenze, questi luoghi sembrano costituire un unico esclusivo ambiente che odora insieme d’antico e di sacro.  Andando quindi potrò soffermarmi in ciascuno, come fosse una stazione, e percorrerli tutti per poi ricomporli nel pannello della mia memoria: il teatro greco romano ed il san Benedetto che con il monastero, la chiesa e l’arco che ne collega le parti sembra racchiudere l’intera via Crociferi: il museo all’aperto del Barocco catanese.

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Foto di Gerry Labrijn, 2012

Il teatro era lo scenario naturale al quale fin da piccola mi affacciavo dalla terrazza della casa dei nonni, una di quelle case abbracciate al teatro a comporre un singolare insieme, un corpo unico in un’architettura stratificata nel tempo e forse esclusiva di questa città; la via Crociferi accanto, non una strada, ma un mondo per me bambina e poi ragazza che, studiando al S. Benedetto, ne ho respirato l’aria, mentre senza saperlo, in una quotidianità mai banale, mi lavorava la bellezza di quei luoghi fatta di scorci di cielo azzurro prepotenti fra i ricami delle chiese barocche e le tegole  adagiate sui tetti di tante vecchie costruzioni, come in ascolto dei canti gregoriani delle suore in preghiera.          

I luoghi della memoria sono luoghi che parlano; non sono vuoti, qualcosa aleggia in loro: hanno un’anima. Da amante della mitologia, mi piace pensare che presso di loro persista lo spirito di Hestia, l’antica divinità del focolare, figlia-non caso- di Crono e Rea, che con il suo calore rendeva domestici, familiari, gli spazi da lei abitati e così, regalando loro un’anima, li trasformava in “luoghi”.  Non so se questi luoghi l’anima ce l’abbiano davvero o se siamo noi a dargliela per quello che in noi evocano: strane intermittenze del cuore in cui colori, odori, luci, ombre, suoni, operano il miracolo proustiano del tempo ritrovato, non memoria intellettuale, ma ricordo, cioè passato che ritorna nel cuore e lo fa battere di nuovo nel rivivere, come fosse attuale, un’emozione antica. Certo quest’anima non tutti la sentono; essa si svela solo a coloro che quei luoghi hanno vissuto e lì hanno mescolato il “dove” ed il “quando” fino a confonderli nella trama unitaria della loro storia. Perché questa è la differenza fra gli spazi ed i luoghi: gli spazi sono asettici, impersonali, realtà fisiche fuori dalla storia, mera estensione cartesiana, i luoghi, invece, nella storia ci sono entrati, hanno contribuito a scriverla, quella e non altra, al punto che senza di loro, non sarebbe stata la stessa.

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Foto di Gerry Labrijn, 2012

Da tempo questi luoghi non li vedo: lo stare a casa non lo ha consentito ed ha imposto distanze che nel prolungarsi dei giorni si sono dilatate; cose, in fondo, vicine fisicamente sono diventate lontane perché non ne abbiamo potuto fruire, ne abbiamo dovuto fare a meno, quasi fosse la casa “un esilio”, il luogo altro, quello fuori dal vero suolo in cui nell’intimo ognuno sa di poter riconoscere la sua patria. Ma si è trattato di una separazione, non di una perdita; sapevamo comunque che, almeno molte di loro, c’erano ed erano lì ad aspettarci; le avremmo ritrovate rese più belle dal distacco. Per questo, adesso, la nostalgia che affiora, almeno quella che io avverto non si declina al passato, che la pandemia non ha violato come avrebbe fatto un terremoto, ma al futuro che, nell’incertezza del presente, non sappiamo di quali attese riempire. Perché mentre il passato è integro, e di lui possono nutrirsi i ricordi, quello che rischia di essere svuotato è ciò che deve ancora venire di cui sappiamo solo che non potrà essere come finora è stato. Le speranze, dice Gramellini, dipendono dai ricordi, ma quando il mondo cambia, in un presente diverso, il ricordo forse autorizzerà il desiderio ma non basterà a fondare la speranza. E se le attese delle cose a noi care non potremo accarezzarle, se rimarranno vuote, in che cosa sperare? Di cosa riempirle per darci una rotta? Forse nuovi luoghi della memoria dovranno sorgere per confortarci della loro perdita e dare ispirazione ad un nuovo principio. Come dicevamo, non tutto tornerà, rinunceremo a qualcosa: sarà la cicatrice del coronavirus. Ma non tutto andrà perduto: la fine ed il principio sempre s’incontrano.

Maria Liberti


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